Fra(m)menti di un’intervista – “Gianluca De Rubertis, l’ermeneuta dell’universo umano”

Fra(m)menti di un’intervista – “Gianluca De Rubertis, l’ermeneuta dell’universo umano”

Fra(m)menti di un’intervista – “Gianluca De Rubertis, l’ermeneuta dell’universo umano”

 

“Su quella pelle di luna cotta/ Su quella faccia di bimba bella/ Io ci ponevo una caramella/ Con il cappello con la bombetta/ La luna piange lacrime arcane/ Proietta l’ombra di pipistrello”. Questi versi, così cupi e misteriosi, potrebbero essere tranquillamente quelli di una ninna nanna cantata dal conte Dracula ad una bambina il cui profilo riporta alla mente Alice e il suo paese delle meraviglie. E invece, proprio come nell’immaginifico regno in cui si catapulta la celebre sognatrice dei racconti di Lewis Carroll, ciò che si rende visibile non è altro che una delle porte aperte alle infinite vie dell’inconscio. I versi in questione appartengono ad una delle firme più originali del panorama italiano: Gianluca De Rubertis. Autore raffinato e poliedrico musicista in continua sperimentazione che mescola con grande gusto ed eleganza le vette più alte di un pop sinfonico in relazione con gli astri e i profondi abissi di cui il cantautorato più affascinante, inquieto ed epico si è animato dalla scuola di Genova in poi. De Rubertis, splendido vampiro della canzone italiana, è quel raggio di luce nella fredda ombra di cui si sentiva il bisogno; un poeta visionario dalla voce misteriosa che, seguendo i punti d’una sacra costellazione formata da artigiani della parola, della lingua, della phoné, ha costruito uno stile personalissimo e coraggioso che sfida il nulla cosmico dei nostri (mal)tempi conducendo l’ascoltatore verso altre dimensioni in cui “Tra cascate di stelle” è possibile percepire il calore “Della luce di Sirio, di quelle lontane”. Una penna in continuo slancio verso l’ignoto che oscilla tra il bagliore di una chimera e la ricerca di auto-spaventarsi.  Prima di volgere l’attenzione all’intervista bisogna soffermarsi su un aspetto: tale scambio di battute avviene poco dopo l’uscita del singolo “Il pellicano”, uno splendido affresco sull’infanzia evocato da un’aura pop che si manifesta attraverso il sacro. Il brano mostra uno degli elementi naturali che abitano il cosmo interiore del nostro viaggiatore-autore e che da sempre lo mette in relazione con il cosmo esterno che lo abita: il mare. Le onde del mare però, come ci mostra De Rubertis in altre canzoni, possono rivelarsi anche un terribile incubo, divenendo un tutt’uno con il cielo oscuro della notte, lo specchio marino di ombre stellari che si manifestano come uno squarcio sulla morte del pensiero e si mescolano dando vita ad immagini figlie del migliore cinema espressionista. Quest’altro lato della sua poetica si lega perfettamente all’idea del doppio, dell’infinità di “Io” di cui siamo fatti; uno specchio frantumato in innumerevoli significanti da ricercare nei sogni e nei simboli capaci di descriverne il lato oscuro, uno fra tutti le piramidi.  

“Il pellicano” è un’immersione nei ricordi il cui rifiorire mostra il passare del tempo esteriormente ma che attraverso il pensiero mantiene la propria fiamma accesa. Da quali memorie è sceso questo “pellicano” e che viaggio hai percorso per la realizzazione del brano e dell’album di cui fa parte?

Guarda, come nel novantanove per cento dei casi di ciò che faccio, credo non si tratti mai di una cosa programmata. La musica è venuta fuori quasi istantaneamente e anche il testo si è palesato in questo modo. Sono uno che lavora molto velocemente con i testi, salvo rari casi. Mi è venuto naturale fare un tuffo in qualche ricordo, iniziando da alcune immagini di quando ero molto piccolo, e da lì ho seguito un percorso che parte dalla prima infanzia e giunge ai primi amori, ai primi confronti con le amarezze che la vita comporta, sono “le nuvole che offuscano il sereno”. “La violenza della luce”, l’album precedente, è stato scritto nell’arco di qualche mese, quest’ultimo invece raccoglierà delle canzoni distanti nel tempo, scritte in diversi momenti temporali. La mia modalità di scrittura, che è del tutto automatica come dicevo, si dipana nel carpire le cose più immediate e sincere. Il disco che uscirà è scritto in un tempo più ampio, sarà composto da dieci canzoni, tra cui anche una cover di un pezzo di Riccardo Cocciante; è un brano che mi è tornato in mente quest’anno, ad aprile, e che fa parte dei miei primi ricordi di quando ero fanciullo e si facevano le festicciole fatte in casa, si ballavano i lenti. Il brano è “Era già tutto previsto”, una canzone d’amore e di dolore, che ho trasformato in un qualcosa di più attuale e ballabile, sono veramente curioso di come verrà accolta. Parlando invece degli altri brani, lavorandoci su mi sono reso conto quali fossero quelli che scalpitavano, quelli che mi chiamavano a gran voce; e ripeto non c’è un programma. È sempre tutto in divenire. Ti racconto questa: avevo un’idea musicale da un anno, non ci cavavo nulla, e sono uno che non forza le cose, anche quando c’è una cosa che mi piace molto, magari è una cellula di venti secondi, non la violento, perché fino a quando non arriva il momento giusto aspetto. Un giorno mi sono svegliato alle 6:00 del mattino e la canzone che cercavo l’avevo in testa, proprio come doveva essere, e così ho scritto subito il testo sulle note dell’Iphone nel giro di un quarto d’ora, poi mi sono riaddormentato. Preferisco che le cose arrivino in questa maniera invece che stare lì a studiare una strada precisa, anche perché la forma canzone è simile alla poesia e forzare il percorso di una poesia lo trovo un po’ paradossale, mentre forzare la strada su grandi strutture, come nel caso dei romanzi, probabilmente può anche rivelarsi necessario a volte. 

Di questa canzone mi ha colpito molto un momento che recita: “E quel bambino biondo è ancora lì che osserva le profondità del mare”. Che rapporto avevi con il mare e il suo suono? Ti spaventava? E quanto di tutto questo lo hai riportato nel brano e nel tuo presente?

Sono nato a Lecce, quindi sai bene che lì il mare è una faccenda imprescindibile. Poi ho avuto la fortuna di passare tutte le estati nella bella casa di famiglia al mare, e quindi il mio rapporto con esso è sempre stato forte. In realtà da bimbo il mare mi ha sempre fatto paura, per fare il primo tuffo da un metro d’altezza ci ho messo tanto. Ricordo che sono stato per giorni a pensarci, ma non riuscivo a prendere coraggio. Che poi questa faccenda del tuffo si lega moltissimo a “Lorenzaccio” di Carmelo Bene, all’atto che cancella l’azione. Faccio un esempio: se tu sei su uno scoglio alto dieci metri e hai paura di tuffarti, per compiere il gesto del tuffo devi per un attimo de-pensare tale gesto, altrimenti non lo farai mai. È vero che spesso Carmelo Bene viene accusato di essere criptico o estremamente cerebrale nello spiegare questi meccanismi ma in realtà diceva una cosa semplicemente perfetta, ed è anche compito nostro tramutare in parole semplici quello che è stato in grado di farci capire, si tratta di questo: per compiere un atto devi davvero cancellare per un istante il pensiero, tutto qui. Un bimbo su un ridicolo scoglietto alto mezzo metro, per giorni a guardare le acque del mare, incapace di fare il salto. Poi si tuffa, mentre il pensiero se ne va in vacanza.

E in quel momento hai de-pensato.

Lì de-pensi per forza. Sto lasciando Milano dopo 18 anni, torno a Lecce, trovo comunque che il mare sia un elemento fondamentale, a me piace tantissimo e amo viverlo, nonostante rappresenti anche qualcosa di spaventoso. Col mare devi saperci fare perché ti può anche fare male se non sei attento, se non capisci il suo essere in qualche modo implacabile. È fondamentale questa cosa, cosa che, tra l’altro, ho anche riportato nella canzone “La vita è sogno” che fa parte di un mio disco del 2015 dove nel ritornello dico: “Come la notte cupa dell’alto mare/ come le stelle lo spazio siderale”, intendendo il buio profondo del mare come un universo, un qualcosa di sconosciuto, che fa una paura immensa e si avvicina ad un concetto di necrosi, di morte del pensiero, il che è terrificante, ma tutto questo è dentro di noi. La necrosi del pensiero o il pensiero della morte, sono concetti insiti nel pensiero vivente e fanno parte, assieme ad esso di qualcosa di unico e inscindibile. 

Passando dal mare alla terra ferma, nel brano c’è uno straordinario passaggio di scrittura che recita: “La quercia gelida nel parco/ Madre austera dei bambini/ Che si sanno arrampicare”. Sono rimasto particolarmente colpito da questa quercia che mi riporta a Pinocchio, agli Ent di Tolkien o all’albero dell’Axis Mundi. Dato il tuo essere un cantautore visionario in cui noto dei tratti fiabeschi, che simbologia ha quest’albero all’interno della canzone? Che ruolo ha?

Quello è un ricordo reale, perché quando ero piccolo ci recavamo spesso al Parco Comunale di Lecce, c’era una quercia gigantesca. Tra l’altro il Salento è una zona dove cresce una razza di quercia particolare che si chiama Quercia “Vallonea”, è una specie protetta. Quella del parco era certamente molto grande, ma a me che ero piccino appariva gigantesca. Ricordo che mio fratello, più grande di me, si arrampicava e io cercavo di raggiungerlo; ho quindi dei ricordi molto belli al riguardo. In realtà poi a queste cose non ci ho pensato nemmeno in fase di scrittura. Penso che, al di là dei miei ricordi, il brano tratti di cose molto semplici in cui tutti si possono rispecchiare.

Hai definito “Le piramidi” un brano completamente verticale dove lo sguardo spazia dalla terra al cielo, penetrando la spina dorsale d’un solido antico millenni, fino all’universo infinito di linguaggi che fluttuano oltre i cieli, linguaggi nuovi e inusitati che per te sono la vita stessa. Qual è la chiave d’accesso alla tua misteriosa, solare ed elettrica Piramide?

“Le Piramidi” è un brano che ha a che fare con la mia teoria del linguaggio, che deriva da tante cose che ho studiato, tra cui anche Carmelo Bene; per te, per me come per tanti, si dimostra essere una figura di grande rilievo filosofico, è un medium che dà accesso a migliaia di cose che non avresti conosciuto senza di lui; attraverso di lui si dipanano una miriade di pensieri d’altri, lui è riuscito a veicolarli in un anti-pensiero suggestivo e affascinante. Per cui ne “Le piramidi” c’è questa mia visione del linguaggio che in qualche modo, per me, è una questione anche viscerale e sessuale; l’orgasmo è una forma di de-pensiero attraverso cui si può creare una nuova vita, perché tramite esso possiamo arrivare all’atto della fecondazione. Ho sempre pensato a questo apice come un momento in cui si crea un nuovo linguaggio, come se ci fosse un serbatoio universale di linguaggi ancora da venire, che divengono possibili ogni volta che un nuovo cervello abita questo pianeta. Quindi è come se perforandoci a vicenda, o scopando insomma, dando alla luce nuova vita non facessimo altro che raccogliere una porzione di linguaggio universale che sta lì pronta ad essere coltivata; il linguaggio è inesauribile, siamo otto miliardi ma ogni persona ha un linguaggio unico che è impossibile da replicare. Nel brano, tutto questo discorso l’ho poi associato alla figura della grande piramide di Giza, in quanto simbolo di un’altra faccia del linguaggio, quella che non si conosce non perché deve ancora venire ma perché è venuta e poi si è smarrito. Questa canzone parla dei linguaggi sconosciuti sia passati che futuri.

Il tuo percorso da solista ti ha condotto verso un pop sinfonico che mescola sapientemente cantautorato ed estetica retrò con visioni immaginifiche dal sapore fresco, a volte futuristiche addirittura frutto anche delle letture di fantascienza, mantenendo sempre un poetico velo malinconico. Come si entra nel cosmo interiore di Gianluca De Rubertis?

Io credo che ognuno di noi sia pieno dei propri migliaia di doppi, giusto per rimanere a braccetto con il nostro amato Carmelo, e con Artaud se vuoi, perché fuori siamo una cosa, ma dentro conteniamo stimoli infiniti. Solo che, come dicevo all’inizio, ognuno si crede vivo in un unico pensiero complessivo, ha una sua visione delle cose, e se la porta appresso.  Per quel che riguarda me sono molto cervellotico, faccio fatica a rilassarmi, posso anche affondare in un divano dicendo: “Ah, che bello, ora non faccio un cazzo!” ma il guaio è che non riesco a fermare il pensiero. Per provare a rilassarmi gioco a scacchi, viaggio con la testa, facendomi molte domande, domande siderali, cosmiche (e infatti la parola “universo” compare in molti miei brani), sono domande da cui sono sempre stato attratto. Percepisco la profondità abissale del mare fondersi con quella glaciale dello spazio in un qualcosa di unico, sento miliardi di voci che urlano, che giungono da ogni parte di questo tutt’uno, sento una sofferenza gigantesca che abita l’essere umano; a volte mi costringo a non pensarci, perché mi destabilizza. Sai, questo tipo di empatia può diventare pericolosissimo perché quando sei così in empatia con la sofferenza planetaria, cosmica, non hai tregua. 

Trovo che le tue canzoni siano cariche di metafore che attraverso l’utilizzo di queste immagini stupende, come quella del mare di notte che diviene lo specchio dello spazio cosmico e che dà l’idea astratta di una pellicola espressionista, riesci a trasformare la musica in poesia. Come puoi introdurci al tuo mondo allegorico?

Mi rendo conto, ma sempre dopo ho scritto, di avere questa simbologia di cui parli e che è molto forte. Cito spesso la luna, l’universo, credo di aver abusato della parola siderale. È una parola che trovo bellissima perché mi dà la sensazione di qualcosa di sconosciuto e gelido e che allo stesso tempo assomiglia a Dio, ad un diamante gelido oserei dire, ad un oggetto ignoto che si staglia al di là del bene e del male. Per cui è una simbologia che mi possiede in maniera del tutto naturale, sono l’ermeneuta di me stesso. Il pellicano, nello specifico, è il simbolo delle cose semplici, quelle che non hanno prezzo, perché tu puoi comprare quello che ti pare, ma il ricordo di una castagna arrostita mangiata con tua madre non ha prezzo.  “Con le carezze di un amore pellicano” dice il ritornello, perché il pellicano è un simbolo cristiano e rappresenta un amore simile all’Agape, un amore incondizionato che non vuole niente in cambio, insomma un amore che non è né erotico né di appartenenza, ma è semplice, come quello che prova un uomo che osserva un bimbo e gli fa una carezza.

Intervista di Francesco Latilla

Puoi leggere l’intervista intera a questo link:

https://siing.net/gianluca-de-rubertis-lermeneuta-delluniverso-umano/

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