Intervista ad un ortodosso. Parla Massimo Zamboni

Intervista ad un ortodosso. Parla Massimo Zamboni

Massimo Zamboni è uno dei protagonisti della musica italiana del secondo Novecento. Tra punk e metafisica, liturgia e rivoluzione l’itinerario musicale culturale di Zamboni è un lungo pellegrinaggio tra i deserti sciamanici della Mongolia e i quartieri psichedelici della Ost Berlin ai tempi della DDR, un viaggio oltre i neon dell’Occidente edonista per riscoprire una dimensione sacrale e popolare che è il centro del percorso musicale ed iniziatico di questo irregolare del panorama italiano. Membro dei CCCP e dei CSI, oscillando tra i confini dell’elettronica e le suggestioni di una Emilia Paranoica e dolciniana, a distanza di oltre 40 anni dall’esordio con Ortodossia, insieme a Giovanni Lindo Ferretti, Zamboni ha da poco pubblicato un nuovo album mistico e popolare, mostrando una nuova fase del suo stile con “La mia patria attuale”. Una raccolta di cantici musicali tra San Francesco e Thoreau, l’Emilia rossa e popolare dei suoi romanzi e la profondità spirituale delle meditazioni montane di un Segantini. Testi che compongono un rituale magico, laico e misterico tra le voci dell’Appennino e i sentieri di un mondo perduto e trascendente da cui Zamboni prende congedo estetizzandolo tra richiami liturgici e sentimenti popolari. Zamboni con La mia Patria attuale mostra un volto nuovo della sua produzione, che accompagna quello del punkettone dei CCCP che ha da poco presentato la nuova edizione del “Libretto rozzo”, il cantautore maturo del CSI e lo scrittore cantore dell’Emilia popolare di “La trionferà”. Abbiamo intervistato Massimo Zamboni per meglio conoscere le tante sfaccettature di un percorso artistico complesso ed unico.

Per l’editore Gog è stato da poco ripubblicato il Libretto Rozzo, che hai presentato nel 2022 con Davide Brullo e Giovanni Lindo Ferretti. A distanza di tanti anni che effetto ti ha fatto rivedere di nuovo in libreria i testi dei CSI e dei CCCP? E quali sono stati i ricordi più intensi che hai di quel periodo?

Quella riedizione del Libretto Rozzo è diventata inaspettatamente il volano per un riavvicinamento impensato fino a poco prima. Come se il riscoprire le nostre parole di allora portasse con sé come implicita conseguenza il riscoprire il valore che le aveva generate. Una tensione si è sciolta, l’atto del rileggere è diventato un rileggersi e una ri/conoscenza. Assieme alla commozione nei confronti di una crescita avvenuta per sua propria forza, senza che venisse accompagnata dal supporto di nostre azioni concrete, se non l’esserci. L’importanza che viene attribuita oggi a CCCP-CSI supera la nostra immaginazione, e le parole del Libretto attestano visioni che ancora conducono le nostre singole vite e sono divenute fondamento per vite di altri. Inni, preghiere, canzonette, marce militari, love songs, nate dalla fragilità più totale: non si può chiedere di più, o di meglio.

Negli anni 80 e 90 sei diventato un’icona di una gioventù ribelle che cercava una propria dimensione oltre la cappa dell’edonismo reaganiano. Come è cambiato in questi anni quel giovane ragazzo che dalla Berlino orientale della DDR suonava Punk Islam e oggi nel mondo del villaggio globale pubblica “La mia patria attuale”?

Nel ruolo di icona proprio non mi ritrovo, manca il fisico richiesto dal ruolo e una consapevolezza del proprio apparire che non mi appartiene. Mi sembra di aver percorso la distanza apparentemente abissale tra quella Punk Islam e questa Patria attuale con una intenzione solida, continuando a esercitare quanto appreso in quei primi anni che chiami “ribelli”. Una ricerca che non è mai diventata professione, un vivere doppio che fa rivivere in musica e testi quanto mi accade attorno e dentro. Se c’è stato cambiamento da allora – mai avrei pensato di scrivere o cantare – è nella differente padronanza delle idee che l’età anagrafica mi consegna. E che spesso cerco di infrangere mettendomi di fronte a prove che non sono sicuro di saper affrontare.

Come hai vissuto il passaggio dalle sonorità post punk dei CCCP alle altezze metafisiche dei CSI?

CSI ha portato con sé l’ingresso trionfale della musica nelle nostre coordinate, tarate molto più sul nervo acceso e sull’istinto che su una profondità pensata. C’è un’autorevolezza adulta nel senso migliore della parola nel percorso CSI, assieme alla sorpresa continua nel vedere fiorire attorno a noi le canzoni come fossero creature vivnti. Ogni canzone si è arricchita delle grandi differenza esistenti tra noi, indipendenti di nome e di fatto, e ancora più del lavoro di scavo che ognuno di noi ha praticato verso le proprie capacità espressive. Intransigenti gli uni verso gli altri, ma capaci di slanci improvvisi di accoglienza: la somma è stata deflagrante, una vera moltiplicazione.

In questi anni ti sei dedicato alla scrittura, pubblicando romanzo di successo come “La trionferà”. Che cosa vuole raccontare il Massimo Zamboni scrittore e a quali riferimenti letterari guarda?

Non ho un piano prestabilito di produzione letteraria. Ci sono mille storie che mi affascinano profondamente e che si offrono alla mia curiosità sotto le forme del richiamo. Ho molti libri aperti in scrittura contemporanea e spesso è il caso più che la volontà a spingermi ad affrontarne uno portandolo a compimento. So che ogni libro è una scalata, spesso occorrono anni per terminarlo, otto o nove nel caso di Eco di uno sparo, quattro per La trionferà: dunque ogni libro ne sotterra altri, e cerco di amministrare il tempo residuo con attenzione. Ma poi avviene come se uno squillo più forte ti richiamasse, un segnale che conosco, e improvvisamente si concretizza l’idea di un titolo attorno coagulare un folla di pensieri. Quello è l’attimo in cui capisco cosa si deve fare. Se dovessi tracciare una costante nella mia scrittura forse è quella di dare una risposta all’incognita espressa con il titolo, quel grumo iniziale confuso e velleitario che progressivamente si avvia verso un ordine inaspettato. Credo sia proprio la tensione verso quest’ordine ad avviare la narrazione. Il punto di arrivo è sempre posto più alto del punto di partenza, poiché ogni libro è per me, come per l’eventuale lettore, un viaggio di scoperta verso l’inconosciuto attuata per addomesticarlo; almeno temporaneamente.

Possiamo vedere Il cantico degli sciagurati, come una liturgia laica di una Emilia profonda e popolare?

Canto degli sciagurati è la liturgia dell’offerta, la scelta della propria estinzione come forma massima di contrasto verso un esistente oppressivo e soverchiante. La forma di una rivolta istintiva che precede l’organizzazione storica, la lotta di classe; un popolo di straccioni che ritma le proprie istanze su una ballata popolare. Nessuna cognizione politica, nessuna ideologia, solo l’impossibilità fisica di consentire la persecuzione. Ci si arma in una forma rituale, magica, già sapendo che nessun arma porterà difesa. I gendarmi che sparano nulla sanno dei loro bersagli: non c’è accanimento, né odio; giusto un lavoro da svolgere, una faccenda ordinaria prima che faccia sera.

Di recente è uscito il tuo nuovo album La Mia patria attuale. Che immagine mostri dell’Italia protagonista di questi testi?
Una immagine immateriale, relativamente concreta, cercando di dare corpo non alla cronaca del quotidiano né a un approccio storicistico né, infine, alle storie dei singoli come fossero rappresentazioni del tutto. È un’Italia sospesa quella che avevo in mente, stretta nel morso del passato, impossibilitata al futuro, profondamente ferita, segnata dal tempo e dalla fatica. In parte pianto rituale ad accompagnare una morte, in parte canzonetta, così come è nello spirito segreto del nostro Paese. Per fare questo ho voluto accettare una visione italiana della messa in musica dei testi, affidandomi alla forma canzone molto più che al fragore di una orchestrazione punkettona. Non è un canto di protesta, diciamo un funerale in atto, ovvero liberazione e prigionìa.

Hai ancora dei sogni?

Ho imparato a riconoscere i miei sogni, che restano tanti, ad afferrarli quando si manifestano nelle vicinanze, a non porre freni o distinzioni. Ma so anche quanta fatica porta ogni sogno con sé, e quanta presupponenza pretende nell’essere realizzato. Forse per me sta arrivando il tempo di praticare una disciplina che prevede accettazione più che slancio verso il desiderato. Certo il mondo ancora lancia richiami cui fatico a non rispondere, sentendoli miei. Così le voglie e le tentazioni si accavallano scuotendo i buoni propositi, in un disordine cui cerco di dare forma costituita grazie alla canzoni e alla scrittura.

Intervista a cura di Francesco Subiaco

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