Ettore Greco, scultore dell’Io tra San Sebastiano e figure infernali

Ettore Greco, scultore dell’Io tra San Sebastiano e figure infernali

Ettore Greco è un’artista potentissimo, le cui opere sono caratterizzate da una profonda ricerca verso gli abissi del proprio “io”, unendo la furia di Rodin ai primi amori del figurativo come Michelangelo. Una volta valicate le porte della sua arte ci si smarrisce in un vortice inafferrabile dove viene reso visibile ciò che in realtà non lo è, una foresta oscura in cui l’inquietudine si sublima e diviene incanto. Basta soffermarsi dinanzi ai  satiri da lui ritratti per rimanerne affascinati. Egli è ormai tra gli scultori italiani più amati anche fuori i confini nazionali, un’artista la cui forza è generata dallo spirito.

Da cosa nasce una tua opera?

In realtà nasce da molto lontano, mi approccio alla scultura da vent’anni. Ho cominciato frequentando l’accademia di belle arti lavorando molto sull’argilla, non ho mai messo mano su pietra ad esempio, perché l’argilla ti permette di plasmare la materia. Concettualmente trovo più affascinante dare forma alle cose più che scolpire un blocco. Forse questa mia attitudine è generata dal mio vivere nel veneto, in cui i materiali a disposizione sono questi, infatti abbiamo la tradizione della ceramica e della terra cotta. Credo che se fossi nato a Pietrasanta avrei sicuramente avuto un rapporto diretto col marmo, chiaramente. Per cui credo che un’artista nasca da quel che ha a disposizione. Ricordo che mio padre portava a casa i panetti di argilla perché, anche se era prevalentemente un pittore, amava modellare i materiali e quindi le prime esperienze che ho fatto sono state proprio a contatto con la sua argilla. Ero molto piccolo. Ad ogni modo, la mia opera nasce dalla voglia che ho di rappresentare il corpo, è sempre stata la mia fonte di ispirazione. Sono anche nato in un periodo storico molto difficile, ero ragazzo quando l’arte concettuale andava per la maggiore. Io invece mi sono sempre rifugiato nell’arte figurativa, avendo come modelli da seguire grandi artisti come Michelangelo in primis, proprio come immaginario primordiale e d’infanzia e poi invece, quando ho scoperto Auguste Rodin ho capito che l’amore che provavo per quest’ultimo era potentissimo. All’epoca non c’era internet e quindi le poche cose che potevo studiare le trovavo sui libri e mi mettevano in contatto con quell’arte che per me è stata una fonte d’ispirazione. Voglio anche sottolineare che, il fatto di osservare una scultura soltanto da un punto di vista, quando in realtà è a 360°, stimolava la mia fantasia per inventare ciò che non potevo visualizzare e questo ha comportato la fine del mio contatto con l’immagine e lì è cominciato a nascere il mio stile, proprio perché creavo sulla base di figure ideate da me. Erano gli anni ’90.

Cosa ti cattura di più del tuo mestiere?

Il rapporto che ho con l’argilla. Quando comincio a lavorare ad un’opera non ho niente di preciso in testa, prendo un pezzo d’argilla e lo trasformo lentamente finché all’interno di questa figura abbozzata da me vedo delle soluzioni. Michelangelo diceva che: “La figura che vedo è già dentro al blocco, a me non resta che tirarla fuori” e per me è la stessa cosa solo che nasce da un altro materiale. Avverto una necessità di esprimermi e lo faccio attraverso l’argilla e la utilizzo come fosse il mio strumento musicale, come un chitarrista con una chitarra, ed è lì che mostro qualcosa di me. Non a caso lavoro ascoltando molta musica, soprattutto Debussy. Scavo nel profondo attraverso la scultura e credo che attraverso il corpo umano si possano esprimere i sentimenti di tutti i giorni. Forse ho qualcosa di misterioso dentro, non lo so, ma riesco a dargli luce solo attraverso la mia arte.

È come se tu ricercassi il mistero all’interno di una scultura?

Assolutamente. Il mistero dell’esistenza, del corpo umano, della ritrattistica e soprattutto dell’anima. Cerco di rendere visibile l’invisibile, questo è importante. Voglio che chiunque possa avvertire qualcosa di diverso da una mia opera, perché io ne divento il tramite, infatti le mie opere sono ricche di pathos, piene di emozioni. Se rappresento un gesto, questo deve fungere come il rappresentativo di un motto dell’anima ed è fondamentale perché cerco di scavare nel corpo per giungere ad una verità profonda. A volte cerco di tirare all’estremo i movimenti o i lineamenti dell’immagine per mostrarne l’emozione e non il valore estetico.

Hai realizzato una scultura dedicata a D’Annunzio. Com’è stato il lavoro?

In realtà sono due sculture. La più famosa è un San Sebastiano che si trova in una nicchia sotto il mausoleo. Questa figura è da sempre per me un tema importante perché è un corpo intero che in genere si dona alla sofferenza. Egli viene legato ad un albero e trafitto dalle frecce. Dato che io non amo utilizzare i simboli nelle mie sculture, nel mio San Sebastiano non vi sono le frecce ma solo il corpo sofferente e questo è stato estremamente stimolante. Per me era inutile modellare gli oggetti esterni. L’albero  a cui è legato è vero e l’ho dipinto di rosso e così, in questo caso, la simbologia l’ho presa proprio dalla natura stessa. Il rapporto con il Vittoriale nasce dalla mia amicizia con Giordano Bruno Guerri e sono molto felice del lavoro che sta svolgendo. Poi, aver donato le mie opere come hanno fatto anche artisti come Paladino, Pomodoro e tanti altri per me è molto importante. Anche il vate era legato a San Sebastiano e infatti aveva addirittura messo delle parole ad una musica di Debussy, il che alimenta il mio rapporto con il celebre compositore. Per me è stato un punto d’arrivo.

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Claude Debussy and Gabriele d’Annunzio during rehearsals for The Martyrdom of Saint Sebastian in Paris, France, drawing by L Bompard, from L’Illustrazione Italiana, Year XXXVIII, No 21, May 21, 1911.

Quindi la musica è evocativa per l’arte?

Rodin quando lavorava non voleva sentire neanche una nota musicale, io invece faccio il contrario. È molto soggettiva come cosa. Tra l’altro, la musica è uno stato d’animo che mi attraversa. Lo scrittore Mattia Signorini una volta ha scritto di me questo: “Entri in studio e cerchi il giro perfetto.” Per cui, quando entro nel mio studio cerco la giusta musica ma poi ciò che ne viene fuori, quel giro perfetto, non è altro che la materializzazione di un’ombra dell’inconscio la cui musica non lascia traccia.

Intervista di Francesco Latilla

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