Strage di via D’Amelio: il coraggio di un uomo

Strage di via D’Amelio: il coraggio di un uomo

Era una domenica come le altre, la solita domenica in cui Paolo Borsellino andava a trovare l’anziana madre anzi, più in particolare, stava andando a prenderla per accompagnarla a fare una visita medica. Nulla di strano o di assurdo fino a quel momento: il giudice, nonostante vivesse sotto scorta, benché fosse perennemente tormentato dal terrore, l’angoscia e la pressione psicologica di vivere un profondo e concreto rischio, per lui, la sua vita e forse quella delle persone a lui più care, era abbastanza preciso nel frequentare la sua amata mamma.

Forse, però, si farebbe un errore a considerare quella come una domenica come le altre, perché nel momento in cui aspettava che la madre gli rispondesse al citofono di casa, la sua Fiat 126 imbottita di tritolo, si accese nell’intenso bagliore di una deflagrazione, strappandogli via la vita. Se riuscissimo a calarci in questa assurda prospettiva, potremmo renderci conto, senza parole aggiuntive, di quanto sia importante ciò di cui si parla oggi: la morte del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta. Avvenuta ormai trent’anni fa, cinquantasei giorni dopo l’attentato al collega e amico Giovanni Falcone, siamo ancora qui a ricordarla.

Strage di Via D'Amelio, 19/07/1992

Strage di Via D’Amelio, 19/07/1992

Ma chi era, precisamente, Paolo Borsellino? Attraverso un difficile periodo soprattutto economico a causa della scomparsa del padre, Paolo Emanuele Borsellino divenne magistrato nel 1963 e il suo primo stipendio servì a pagare la tassa governativa alla sorella per permetterle di laurearsi in farmacia e dunque iniziare a lavorare anche lei. Egli raccontava sempre che, quando studiava per entrare in magistratura, il suo obiettivo non era quello di occuparsi di mafia, bensì di diritto civile. Tuttavia, trasferito a Palermo nel 1975, entrò nell’Ufficio istruzione affari penali, lavorando con e sotto Rocco Chinnici, il principale ideatore del primo vero e solo organo che si occupò apertamente e particolarmente del contrasto alla mafia.

Da questo momento in poi, il giudice affermava che occuparsi di mafia “diventò un obbligo morale”, poiché la gente gli “moriva attorno”. Difatti la mafia, in quel periodo, stava iniziando ad applicare sempre più frequentemente un approccio violento e stragista nella sua lotta contro lo Stato e molti suoi amici e colleghi caddero sul campo per tentare di contrastarla. Basti pensare a Rocco Chinnici stesso, ucciso il 29 luglio 1983, Ninni Cassarà, assassinato il 6 agosto 1985 e tanti altri, talmente tanti che il giudice stesso dichiarava che, nonostante fossero suoi amici, non sarebbe riuscito a ricordarli tutti.

Egli morì, appunto, il 19 luglio 1992 assassinato da Cosa Nostra, la mafia siciliana che lui, insieme agli altri uomini del pool e soprattutto insieme a Giovanni Falcone, stava man mano smantellando. Ma oltre a queste informazioni quasi cronachistiche, va sottolineato che il giudice palermitano, rappresenta un tassello importantissimo per la storia della nostra Repubblica soprattutto per il modo che adottava di combattere le associazioni criminali. In particolare, come fece anche Giovanni Falcone, intuì i rapporti sottostanti tra mafia e Stato e come questa si stesse insinuando nei tessuti politici e amministrativi dell’Italia repubblicana.

Ecco, ci si dovrebbe ricordare di Borsellino per poche ma chiarissime questioni, sue attenzioni e intuizioni che distinsero il suo modo di lavorare: la sua trasparenza, il senso del dovere e la sua coerenza con i principi e i valori che costituivano il suo pensiero sia di onesto cittadino sia di consapevole elettore. Egli intuì che nella politica c’era tanto sporco e capiva anche quali fossero i limiti della magistratura, che doveva limitarsi a evidenziare i sospetti che emergevano dalle indagini sugli uomini politici, sottolineando però che oltre a ciò la magistratura non poteva fare e che dunque era compito, onere e dovere dei membri di partito di quella persona sospettata fare chiarezza, pulizia e garantire trasparenza al popolo italiano. Sostanzialmente, non bastava e non basta una sentenza in cui un politico viene assolto dalle accuse per insufficienza di prove, questo non determina l’onestà di quel politico.

Credeva in una politica rappresentativa a mandato popolare, quella politica che proprio in quegli anni stava svanendo ma che invece era necessaria anche e soprattutto per contrastare la mafia, poiché è naturale che laddove lo Stato non si presenta con la faccia pulita, il modesto cittadino farà riferimento a un’organizzazione più presente e più attiva che gli garantisce una protezione e delle sicurezze immediate come la mafia. Insomma, Paolo Borsellino riteneva che la lotta alla mafia fosse un compito di tutti ed aspirava a questo e lavorava per questo sia mettendoci la faccia attivamente, andando nelle scuole a insegnare la “cultura della legalità” (come la chiamava lui), sia rinunciando a incarichi di potere che sarebbero stati certamente comodi da un punto di vista economico, ma che gli avrebbero fatto perdere la credibilità che lo contraddistingueva.

Paolo Borsellino intento a fumare la sua solita sigaretta.

Si sta alludendo alla candidatura che il Movimento Sociale Italiano di Fini, poco prima della trasformazione in Alleanza Nazionale, gli voleva offrire a Presidente della Repubblica, come racconta Guido Lo Porto, collega universitario e amico del magistrato, nonché esponente della destra siciliana. Egli racconta infatti che quando gli proposero questa candidatura, in nome della giovanile militanza e rappresentanza con il Fronte Universitario di Azione Nazionale, Borsellino rifiutò dichiarando “no grazie, io faccio un altro lavoro. Non è questa la mia aspirazione. Ti ringrazio ma ti prego di riferire che non sono disponibile”.

In giorni come i nostri, in cui assistiamo a una politica diventata carriera e non più responsabilità, strategia e propaganda e non più rappresentanza, l’eredità che il magistrato siciliano ci lascia ci insegna a diffidare della nostra classe politica, la quale aldilà delle belle parole sui social, le fiaccolate e le commemorazioni, si è sempre sporcata le mani, dal PD a FdI, dal M5S alla Lega. Ma soprattutto ci insegna che l’onestà non è l’attributo dei polli, non è una cosa passata di moda anche se intorno a noi non la persegue più nessuno. Questo perché un uomo può essere ucciso nella carne ma non nella sua testimonianza, nelle sue parole e nei suoi insegnamenti.

Ed è per questo che Paolo Borsellino, così come Giovanni Falcone, Chinnici e tutti coloro che diedero la vita per un “sacrum facere”, sono ancora vivi e camminano sulle nostre gambe, nella lotta contro la mafia e nella speranza di ritrovare una politica più giusta e più pulita.

Raffaele M. A. Pergolizzi

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