Intervista al Prof.Santangelo: decifrare il conflitto russo-ucraino

Intervista al Prof.Santangelo: decifrare il conflitto russo-ucraino

I conflitti – nell’epoca social – rischiano di diventare l’ennesimo trend topic da cavalcare per ottenere facili like e per porsi come sedicenti esperti. Un atteggiamento già normalmente discutibile e che lo è ancor di più se si tratta di un importante avvenimento nel quale ci si trova di fronte a numerose vittime anche civili. Alla luce di questo discorso è importante dar voce a coloro che – nel corso degli anni – hanno studiato il controverso rapporto russo-ucraino e che riescono a dare risposte profonde sulle cause e tratteggiare le possibili evoluzioni. È il caso del Professore Salvatore Santangelo, giornalista e docente presso l’Università Tor Vergata, che segue da anni tale scenario e a cui ha dedicato alcuni dei suoi più importanti lavori: “Gerussia: L’orizzonte infranto della geopolitica europea a trent’anni dalla caduta del muro” e “Geopandemia: Decifrare e rappresentare il caos”. In uscita – sempre per Castelvecchi – nche il suo nuovo libro “Fronte dell’Est” che andrà a raccontare e analizzare gli ultimi sviluppi dello spazio ex-sovietico. Il titolo della seconda opera citata è il quadro attraverso cui abbiamo deciso di sviluppare l’intervista: l’Ucraina è uno Stato poco analizzato dai grandi organi mediatici e pertanto se ne conosce poco a livello storico, culturale e sociale, e l’obiettivo è stato quello di affidarci a un vero esperto per decifrare e rappresentare il caos.

Nel suo libro “Geopandemia: Decifrare e rappresentare il caos” ha invitato i lettori a prestare attenzione alle possibili nuove contrapposizioni – internazionali ma anche interne ai singoli Stati – che la Pandemia avrebbe potuto amplificare. In che modo l’emergenza coronavirus ha contribuito ad acuire uno scontro che – seppur con intensità ondivaga – è in corso da otto anni?

Ha fatto bene a ricordare che la (non)guerra del Donbass dura dal 2014: i più accreditati osservatori ci parlano di 14mila morti in circa 100 mesi di combattimenti a intensità variabile, 7 al giorno. Di questi 2/3 russofoni e 1/3 lealisti. Numeri impressionanti che però non hanno avuto la capacità di attrarre l’attenzione del complesso mediatico-comunicativo globale. O non lo hanno fatto con la potenza catalizzante di quello che sta accadendo in queste drammatiche ore. Detto questo, per analizzare lo scenario attuale, mi permetto di far notare – ma è solo un’osservazione di natura empirica – come, mentre prendevano forma due grandi progetti di integrazione energetica e infrastrutturale (La Nuova Via Della Seta Terrestre e GeRussia: progetti dalla natura certamente controversa ma in grado – potenzialmente – di portare sviluppo, pace e prosperità sul Continente eurasiatico), abbiamo assistito alla contemporanea nascita di due archi di crisi esattamente su queste direttrici: uno in Mesopotamia (con l’acuirsi del terrorismo di matrice islamista che ha manifestato persino la velleità di farsi Stato) e l’altro, appunto, in Ucraina.
Progetti che – soprattutto dopo la scellerata scelta di Putin – possono essere considerati deragliati, almeno nel breve e medio termine. Il IX stratagemma dell’Arte della Guerra non recita forse: “Osservare l’incendio sulla riva opposta; guardare dalla collina la lotta delle tigri”?
Ciò premesso, la Pandemia è stato un amplificatore, un acceleratore di alcune dinamiche in atto da almeno un ventennio: i poderosi processi di smaterializzazione e digitalizzazione (che culminano nell’Utopia del Metaverso), la costante tensione tra flussi commerciali, delocalizzazioni, integrazioni delle catene logistiche del valore e dell’approvvigionamento e i velleitari tentativi – attraverso spuntati strumenti come i dazi – di guidare, se non spezzare queste integrazioni; infine – complici anche i massicci spostamenti di popolazioni – l’acuirsi della dinamica conflittuale globale-identitario. Quest’ultima è apparsa ovunque (quindi è essa stessa ‘globale’) ma con particolare e pericolosa attualità sul “Fronte Orientale”.
Qui, nel quadro appunto della paradossale rinascita delle identità, stiamo assistendo allo scontro tra un impero morente come quello russo (uscito sfibrato dalla drammatica successione: Guerra Sino-Russa, Prima Guerra Mondiale, Rivoluzione e Guerra Civile, Stalinizzazione, Seconda e Terza Guerra Mondiale) e una delle tante, più o meno stabili realtà statuali che sono nate dopo la disgregazione dell’Urss ma che affondano le proprie radici nel drammatico calderone militare-ideologico del XX secolo e la cui matrice politica è certamente alimentata dai sulfurei valori del sangue e del suolo.
Un altro aspetto conflittuale amplificato dalla Pandemia è quello del tempo: la globalizzazione vorrebbe un tempo sincronico, le convulsioni che descriviamo sono diacroniche.

Con l’Unione Europea che appare incapace di delineare una strategia comune contro la Russia che vada oltre le mere sanzioni economiche, ritiene che gli Stati Uniti possano uscirne positivamente da questa crisi? È probabile che possa aiutarli a rafforzare l’immagine di Putin come un uomo col quale il Vecchio Continente non deve scendere a compromessi e a riportare in auge la NATO come principale strumento di difesa occidentale?

Intanto diciamo che nessuno degli attori di questa “rappresentazione” gode di buona saluta e la drammatica, inaspettata (per chi – pur ricoprendo ruoli apicali di presunta governance dei processi politico-economico – sembra aver dimenticato le leggi basilari della macroeconomia) impennata dell’inflazione che potrebbe raggiungere le due cifre (in alcuni settori, come quello energetico è già accaduto) sta qui a ricordarcelo.
Basta ‘leggere’ – come ha fatto in un illuminante saggio Emanuel Todd – i fondamentali della società Usa per scoprire alcuni, paradossali parallelismi con il gemello perduto: l’Urss (di cui a Washington in tanti sentono la nostalgia); il più evidente è il preponderante e malsano ruolo del Complesso militare industriale.
A ciò si aggiungano – per gli USA – tensioni razziali e tra insider e outsider che assumono le caratteristiche di una vera e propria – seppur strisciante – Guerra civile.
La demenzialità strategica di Putin (dal suo punto di vista ancor più grave) è stata quella di aver riallineato tutto il mondo occidentale dietro “La Rosa dei Venti” dell’Allenza atlantica, definita – solo pochi mesi fa – da Macron un “morto celebrale” (e questo prima di Kabul/Saigon): un’organizzazione che – dopo aver vinto la guerra per cui era stata creata – è sopravvissuta a se stessa e alla sua missione storica, cercando da trent’anni disperatamente una ragione d’essere che oggi riscopre – proprio grazie all’avventurismo putiniano – nell’ombra ingigantita dell’Orso russo che non riesce nemmeno ad aver ragione dei certamente fieri e combattivi ucraini ma il cui potenziale bellico non è certamente paragonabile (sulla carta) a quello di Mosca.
Mere sanzioni? La guerra economica o meglio la sola minaccia della stessa ha portato Putin (assieme all’inaspettata resistenza di Kiev) sul tavolo delle trattative.
L’Europa è ancora il miglior posto al mondo in cui vivere e non è un caso che milioni di esseri umani da tutto il pianeta vogliono venire qui dove i reali valori sociali (scuola, salute, assistenza) sono bilanciati con i nuovi diritti. Questa è la sfida: definire la giusta cornice che possa tenere assieme vecchi europei (dalla sprezzante definizione di Donald Rumsfeld), nuovi europei e coloro che europei vogliono diventare; e forse proprio la nostra economia sociale di mercato può essere in grado di alimentare questo processo.
Comunque – da pacifista – dico ben venga il riarmo per deterrenza: non solo sarà uno dei pilastri di quella che il commissario Breton chiama sovranità europea, sovranità che si alimenta attraverso la nascita dell’Esercito comune, ma anche un potente volano di sviluppo tecnologico. Sia chiaro che non si deve costruire nessuna “Fortezza Europa” ma – come suggerisce Sergio Romano – una Super Svizzera: un Paese che mentre – il resto del Continente si dissanguava in lotte prima di religione e poi etnico nazionaliste – è riuscita a costruire un’architettura politico istituzionale in grado di far pacificamente convivere culti e nazionalità profondamente diverse.

La Cina rappresenta la principale forza da cui la Russia potrebbe ricevere sostegno, in funzione antiamericana. Tuttavia non crede che al regime comunista di Xi Jinping possa aver creato qualche preoccupazione la legittimazione dell’autonomia delle Repubbliche del Donbass? Potrebbe essere un pericoloso precedente per Hong Kong?

La Cina (potenza certamente “opportunista” ma – a oggi – non “revisionista”) ha asserito che le sanzioni contro la Russia sono illegali (dichiarazione – dal suo punto di vista – di chiarificazione delle regole del gioco con cui è disposta a stare al tavolo), ma – allo stesso tempo – si è espressa contro l’invasione dell’Ucraina. Questo perché la Russia sta distruggendo ciò che per la Cina è fondamentale: i ponti della globalizzazione per alimentare la sua crescita regolare e pacifica verso lo status di super potenza; e sullo sfondo anche l’idea – considerando la crescente integrazione economica con la Germania e il resto d’Europa (integrazione fotografata dal fatto che durante la Pandemia questo interscambio commerciale ha superato quello tra Ue ed Usa) disarticolare il fronte occidentale che invece Putin ha ricompattato.
La Cina sta dalla sua parte e se gli Usa le offrissero la cogestione del Pianeta sarebbe ben disposta a spartirsi le spoglie della Russia, fedele al V stratagemma: “approfittare dell’incendio per darsi al saccheggio”.
Una parte delle élite statunitensi – tentate dal “Capitalismo della sorveglianza” – sarebbero pronte a ciò, accontentandosi di ‘gestire’ il declino del ‘momento unipolare’ piuttosto che contrastarlo, considerando la decadenza, secondo la lettura di Paul Kennedy, non arrestabile. Per quanto riguarda la seconda parte della domanda: dalle dinamiche identitarie la Cina ha certamente da temere ma non tanto sul fronte di Hong Kong (che identità ha una ex colonia, fondamentale un Porto-Stato?) quanto sul fronte dei Tibetani e degli Uiguri. Non dimentichiamo che per contrastare l’ascesa della Cina, il ‘mite’ Samuel Huntington consigliava di attivare al suo interno la faglia conflittuale Terra (Massa continentale) vs. Mare (aree costiere) sovrapponibile con la dinamica Sviluppati vs. in via di Sviluppo, Ricchi vs. Poveri e collateralmente accendere una cintura di fuoco nelle regioni autonomiste (HK, Tibet, Xinjiang). Se non avesse temuto una dinamica di questo tipo, per intenderci quella che noi chiamiamo “rivoluzione colorata” e che in tutto il resto del mondo “guerra ibrida”, Pechino su HK avrebbe continuato a esercitare quella che Marcuse definiva una “tolleranza repressiva”.
Certo – dopo l’invasione tutto è pensabile – ma per quanto riguarda Taiwan (come anche HK) questo è – a tutti gli effetti – un ponte cinese verso l’economia globalizzata (che esalta il ruolo delle economie regionali e delle città-Stato iper connesse: in questo senso basta rileggere la lezione di Kenichi Ohmae) integrabili in un sistema imperiale come la Lega Anseatica in seno al Sacro Romano Impero. Quindi Pechino punterebbe a una riunificazione per via politica ed economica facendo crescere a Taiwan/Formosa un sentimento filocinese (già più forte di quello che si pensa).
Da dinamiche identitarie hanno più da temere entità statuali già sfidate da spinte indipendentiste come la Gran Bretagna post Brexit o fragili come il Belgio, la Spagna, l’Italia o il Canada dove – per esempio – le proteste no vax (di intensità pari a quelle della guerriglia dei gilet gialli) si stanno saldando con una piattaforma politica autonomista/secessionista.

Intervista a cura di Alessio Moroni

Per acquistare i libri di cui tratta l’intervista:

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