Buzzati, cinquant’anni in attesa dei barbari

Buzzati, cinquant’anni in attesa dei barbari

Resisterà alle dolci lusinghe la Fortezza Bastiani? /Bugiardi imbonitori l’assediano/ Con violenze degne di Tamerlano (Franco Battiato, Fortezza Bastiani, Dieci Stratagemmi,2004).

A cinquant’anni dalla dipartita del poliedrico Dino Buzzati, come non citare i versi di Franco Battiato, cantautore catanese recentemente scomparso, e del filosofo Manlio Sgalambro, venuto a mancare anche lui, nei quali ne si omaggia l’opera forse più famosa e profonda, ovvero Il deserto dei Tartari. Il romanzo, uscito nel 1940, è il romanzo d’esordio per il grande pubblico di Buzzati, in quanto costituisce il primo approccio del nostro alla letteratura di consumo, grazie all’intuizione di Longanesi e Montanelli che videro in lui un giovane promettente, mentre precedentemente si era occupato, con successo e proficuamente, della corrispondenza di guerra o della cronaca e solo in seconda istanza di letteratura. Questo romanzo che ha inspirato opere, liriche, film, possiede diverse chiavi di lettura, le quali s’intersecano in un’unico finale dal sapore amaro, al di là delle diverse interpretazioni che si è voluto dare all’opera. Un romanzo introspettivo che appare una metafora in molti dei suoi aspetti; prendendo come esempio la figura dei barbari, questi “nemici” esterni, mal definiti, mai descritti appieno, danno l’idea di essere di avversari assoluti, quasi fosse nel poeta e giornalista di Belluno insita l’dea di voler essere lirico, mitopoietico. Questo atteggiamento è anche riconfermato dalla presenza di un’idea di spazio-tempo indefinito: ci troviamo in Italia, ma le coordinate temporali e spaziali sono piuttosto fumose, non sappiamo bene dove siamo, sembra di leggere una fiaba, non un romanzo introspettivo al quale siamo abituati. A molti autori contemporanei o meno hanno paragonato Buzzati, tra questi spicca di sicuro Kafka, con il quale condivide la passione per l’angoscia, l’ansia nei confronti del futuro e una visione pessimistica della vita. anche se il nostro connazionale porta la letteratura italiana a una modernità che è difficile trovare così ben espressa in altri. Basti rileggere, o leggere, le Cronache terrestri, ristampate per l’occasione del cinquantesimo dal Corriere della Sera che ripresenta in una raccolta il meglio della cronaca di Buzzati, che a rileggerla sembra di avere di fronte un contemporaneo, anzi averlo un romanziere-giornalista così, si avrebbe meno crisi nel mondo del giornalismo. All’interno delle Cronache troviamo interessanti resoconti su determinati conflitti del secondo dopoguerra del Belpaese, che assumono l’atmosfera di un racconto e non di una sterile testimonianza di questo o quell’altro scontro; con anche introspezione o un tentativo d’introspezione all’interno della mente dei soldati, vivace dimostrazione della grande capacità narrativa che spazia tra i più disparati generi. A tal riguardo non è esagerato definire Buzzati un precursore della narrativa dell’orrore ma anche della fantascienza basti pensare al racconto Suicidio al parco, breve ma intenso, nel quale l’amore e la passione si uniscono alla tragedia, l’orrore e la fantascienza: la storia di come una donna che per amore si trasforma in un’autovettura desiderata dal marito e dall’esito infelice per tutti di questa scelta. E come non citare uno dei massimi precursori del romanzo fantascientifico italiano ma anche internazionale quale Il grande ritratto nel quale, già nel 1960, s’introduceva l’idea di supercalcolatori che interagendo con l’uomo potevano iniziare a sviluppare una coscienza, concetti che nella mentalità comune arriveranno solo decenni più tardi a ulteriore riprova della capacità narrativa e visionaria. Non si stenta a credere che grazie al suo contributo, un Giorgio Monicelli, fratellastro di Mario, abbia potuto pensare di creare la collana Urania. Uno degli aspetti che meglio caratterizzano l’animo del nostro autore è di sicuro la sua passione delle scalate e della montagna, nello specifico le Dolomiti, che l’hanno visto nascere, da qui si giustifica anche la presenza della montagna in molte sue opere (spicca su tutte nel Deserto la figura sovrastante della montagna), questo spiega anche se solo superficialmente il carattere introspettivo, individualista del nostro. Ma limitare alla sola narrativa, alla sola scrittura, l’attività del nostro potrebbe essere un esercizio molto errato, in quanto Buzzati è un intellettuale a tutto tondo. E’ primariamente un giornalista, anche di un certo livello, fedele alla linea dell’appartenenza a una testata, quasi in maniera caparbia e incomprensibile, servirà il proprio giornale infatti fino a quasi la sua morte. In questo rapporto con il proprio giornale è insita la qualità morale e il carattere di un uomo, pieno di contraddizioni, e meritevole di essere letto e studiato, anche se la triste realtà è un’altra, in quanto per le sue idee evidentemente conservatrici spesso viene trascurato.

Buzzati fu un uomo divorato da profonde passioni: una su tutte quella d’amore, sbocciato in tarda età, con l’attrice Almerina Antoniazzi, sua moglie, che oltre ad aver fatto superare al romanziere quell’amore travagliato descritto in Un amore, un romanzo in cui amore e psiche si uniscono in maniera poetica e sublime, è stata la compagna dell’ultima parte, quella più travagliata della vita dell’autore. Buzzati non fu solo un romanziere, un giornalista, un corrispondente dal fronte, uno scalatore, ma fu anche un pittore. La sua opera pittorica racchiude suggestioni e stimolazioni che vengono da tutta l’arte a lui contemporanea, ascrivibile al suo gusto infatti possiamo annoverare di sicuro Magritte e Delvaux i quali si muovevano sulla stessa linea di pensiero del nostro. Ma come si può muovere uno scrittore e un giornalista nel variegato e anche crudele mondo della pittura? Rispondendo con le stesse parole di Buzzati possiamo dire che “Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie”.

Nicola Quaranta

 

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