Lorenzo Tamburini, il David di Donatello e il trucco come maschera

Lorenzo Tamburini, il David di Donatello e il trucco come maschera

Nel cinema, come nel teatro, il trucco è un elemento fondamentale perché per un attore diviene la maschera in cui calarsi, il volto attraverso cui esprimere delle emozioni. Tra i più importanti truccatori del cinema italiano siede Lorenzo Tamburini, artigiano del trucco speciale per la settima arte, una figura dall’incredibile talento che lo ha portato a trionfare ai David di Donatello del 2019, oltre che agli Efa (Oscar europei) dello stesso anno con il film “Dogman” di Matteo Garrone. 

Secondo Tommaso Salvini il trucco è meditazione, per altri attori come Carmelo Bene invece non è che una prassi lavorativa. Cosa rappresenta secondo te?

Per me rappresenta una grande fetta della mia vita, nel senso che è diventato il mio mestiere, il mezzo con cui porto il pane in casa e ricevo delle gratificazioni. Non posso rispondere al posto degli attori ma, di solito, il mio intento ed anche quello di ogni truccatore è di aiutare l’attore nel calarsi in un personaggio o comunque donargli qualcosa che non è possibile ottenere soltanto con la recitazione. Ad esempio, gli dono delle deformità, dei tratti particolari, addirittura li invecchio a volte. Quindi è un aiuto che si cerca di fornire all’interprete  ed è anche un modo di concretizzare le richieste visive del regista. 

Non ti sembra che in fondo il trucco sia la maschera che l’attore indossa, spogliandosi del proprio Io per divenire qualcun altro? 

Si, credo sia così. Il trucco aiuta ad entrare nei panni di qualcun altro, cosa che mi riporta al gioco del costume nel carnevale in cui ognuno, mascherandosi, sperava di essere quell’altra persona. Penso anche al carnevale di Venezia in cui la gente celava la propria identità, tirando fuori i lati nascosti proprio perché si sentiva più libera. In fondo il trucco è qualcosa di complesso dal punto psicologico oltre che per il lato estetico. Quindi per alcuni ha un valore catartico, come ubriacarsi.

Qual è stata la maggiore difficoltà che hai riscontrato nella tua lunga e prodigiosa carriera?

In realtà tutti i progetti a cui ho lavorato avevano diverse difficoltà. Il cinema italiano, a differenza di altre culture, non è particolarmente legato al trucco speciale di cui tendenzialmente mi occupo, cosa che invece è possibile trovare nei film di fantascienza ad esempio. Per cui, ciò che sta accadendo negli ultimi anni è il far capire alle case di produzione italiane quelli che sono i costi e i tempi per un trucco così importante e pieno di difficoltà. Inoltre, questo è un lavoro che si fa in coesione con gli altri reparti per cui è fondamentale l’auto da parte della fotografia perché la luce può esaltare ciò che ho fatto oppure distruggerlo e molti sono stati abituati ad illuminare la scena in un determinato modo e invece adesso si stanno adeguando anche a quest’altro modo di lavorare. La difficoltà più grande sta nel rendere il trucco ancora buono per essere inquadrato quando, dopo tante ore di riprese dall’inizio del trucco, si arriva a girare i primi piani.

Nel 2019 hai vinto il David di Donatello per il miglior trucco con il film “Dogman”. Cosa puoi raccontare dell’esperienza con Garrone? Cosa hai pensato quando sei stato chiamato a ritirare il premio?

L’ho vinto con Dalia Colli e ricordo che era inaspettato. Qualche mese prima avevo vinto l’Efa sempre con Dogman, poi quando è arrivata la nomination ai David sinceramente non mi aspettavo di vincere e quindi è stata un’emozione molto forte. È un grandissimo riconoscimento e sono onorato della vittoria, ma credo anche che la gratificazione attraverso i premi non deve diventare l’unica preoccupazione per questo mestiere. In quel caso mi occupavo dei trucchi speciali e ricordo che la grande difficoltà era legata al personaggio di Simoncino, interpretato da Edoardo Pesce, che per essere più minaccioso come lo voleva Matteo Garrone, gli avevo creato una fronte finta un naso finto e vari cheloidi. La cosa che più mi ha rincuorato è che molte persone che non conoscevano Edoardo non si erano accorti che aveva delle protesi e quindi è stata una grandissima soddisfazione, perché ho donato realismo al personaggio.

Negli ultimi anni hai lavorato a film impegnativi, uno fra tutti l’acclamato “Volevo nascondermi” sulla vita di Antonio Ligabue. Come si crea la sofferenza nel volto di un uomo?

In quel caso, la capacità di rendere il personaggio così sofferente è stata proprio di Elio Germano. Ovviamente io l’ho aiutato attraverso la creazione di orecchie a sventola, una dentatura che gli ingrossava il labbro anteriore e così via, però non ho mai voluto farne una macchietta. Ligabue aveva già di per sé delle caratteristiche molto forti come queste grandi orecchie deformate, pochi denti e marci e storti, poi era convinto che le persone intelligenti avessero il naso adunco come Dante e per questo si dava delle sassate ed è così che si è fatto quel nasone. Quindi non volevo accentuare tutte le deformazioni fisiche del personaggio perché non avrebbero aggiunto nulla di più su quegli elementi che invece ho tentato di creare su Elio che, alla fine, è un po’ come se avessi semplicemente invecchiato proprio lui, aggiungendo soltanto quelle deformazioni che servivano per farlo somigliare al grande pittore. Sono lusingato dal fatto che Elio continui a citarmi ovunque dicendo grandi cose sul lavoro che abbiamo fatto, però credo che il merito in fondo sia tutto suo. La sua interpretazione è eccellente e dona tutte le sfumature di sofferenza che vanno oltre il trucco.

Intervista di Francesco Latilla

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